Piero Pelù e la cura della musica

“Deserti” è il nuovo capitolo discografico del rocker fiorentino, secondo della “trilogia del disagio” inaugurata col precedente “Pugili fragili”, un album che rielabora e racconta il superamento di un suo momento difficile trascorso.


Non sempre è opportuno e utile per qualsiasi big della musica con alle spalle una discografia affollata uscire con l’ennesimo album di inediti (per Pelù si tratta del ventiduesimo, compresi i Litfiba).

In un questi tempi distratti in cui si vive di nostalgia e autocelebrazioni, dove il grande pubblico maturo vuole sentire solo i classici e dall’altra parte c’è una caccia di “carne giovane” per un mercato sempre più bulimico usa e getta, quando si pubblica un album si deve avere motivi validi per farlo, avere realmente qualcosa da dire.

Pelù arriva da un anno e mezzo di vera crisi, per problemi dovuti ad acufeni causati da un incidente avvenuto in sala di registrazione, in questo caso la musica è servita ad elaborare un momento complesso e a riconnettersi con la propria autentica identità musicale.

“Deserti” contiene canzoni ancorate al concetto di pace, oggi sempre più difficile da difendere, ma anche un diario di sofferenza e guarigione sorretto da suoni rock e influenze mediterranee, il Pelù che ti aspetti ma ancora più quadrato e connotato, un concept album arrivato senza che lui lo cercasse.

Durante la fase di scrittura sono usciti elementi ricorrenti come la desertificazione dovuta alla crisi climatica, i deserti delle periferie dove sempre meno sono le opportunità per i giovani, i deserti nei rapporti interpersonali totalmente distorti dai social, i deserti affettivi di una società senza punti di riferimento.

Il finale e l’inizio del disco sono collegati come in un loop con i due strumentali “Porte” e “Deserti”, dove è presente la voce di Onci Oni, una guida indonesiana che vive nella giungla dell’Isola di Siberut, zona che ha subìto un disboscamento selvaggio.

Diverse canzoni sono legate tra di loro, cosi come sarà un concept anche il tour che accompagnerà l’album, dove Piero farà un mix tra il passato del suo folto repertorio e il presente di questo disco.

“Cercare l’amore dentro al caos” e “La famiglia è la palestra della pace” spiccano come frasi concettuali nella trascinante “PIcasso”, mentre “Maledetto cuore” è un classico contemporaneo che sembra uscire dai Litfiba di “Terremoto”.

“Tutto e subito”, scritta e suonata con i Fast Animals and Slow Kids, parla senza mezzi termini di questo folle mondo di challenge, TikTok, caccia ai soldi e al successo immediato.

Ospiti graditi anche i Calibro 35, che impreziosiscono la trascinante “Baby bang”, l’inno dei “ragazzacci” figli del boom economico.
In “Novichok” e “Scacciamali” esce senza mezzi termini la sua anima pacifista, la stessa di “Il mio nome è mai più”, che viene omaggiata in una nuova versione unplugged a 25 anni dalla sua uscita.

“Canto” è il pezzo manifesto del nuovo Pelù e forse è il miglior testo del disco, mentre “Elefanti” invoca un’anima collettiva necessaria per cambiare questa società.

Musicalmente è un disco rock granitico ed equilibrato, il migliore che poteva fare in età matura, con ottimi strumentisti e collaborazioni, più controverso è il giudizio che riguarda i testi, in linea con il Pelù solista di sempre, con punte sloganistiche e qualche semplificazione di troppo, ma è anche vero che i tempi sono cambiati anche per chi ascolta, e i messaggi semplici oggi arrivano più in fretta al grande pubblico.

In attesa del capitolo conclusivo della “trilogia del disagio”, Piero Pelù dimostra di essere sempre concentrato sull’essere umano partendo da sè stesso, dal suo bisogno di esprimersi, mettendo in discussione in primis il suo ego, usando la musica come terapia e rielaborazione, inseguendo un concetto di pace sia globale e personale.

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Fabio Alberti

 

 

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